All’ingresso della scuola primaria la matematica è in genere una delle materie più amate dai bambini.
All’uscita dalla scuola superiore è la materia più odiata in assoluto, e spesso tale sentimento rimane anche quando lo studente diventa adulto.
Questo atteggiamento negativo è in genere accompagnato da un lato da un senso di inadeguatezza da parte dello studente – o ex studente – che si sente incapace di controllare il proprio successo; dall’altro da una visione della matematica come disciplina lontana dalla realtà, fatta di regole da memorizzare e poi applicare a esercizi ripetitivi, dove il successo viene identificato con il dare velocemente la risposta corretta, l’errore ha una connotazione negativa e il tempo a disposizione è vissuto come un tempo contratto, nemico: una disciplina caratterizzata da un linguaggio criptico e artificioso, difficile e al tempo stesso noiosa, di cui non si riesce a cogliere il senso.
Nella costruzione di questa visione della matematica e di sé come allievo si riconosce la responsabilità di un insegnamento poco incoraggiante, attento ai prodotti più che ai processi, che privilegia esercizi a problemi, spesso condizionato da un’idea riduttiva di valutazione.
Perché l’allievo possa percepire il senso dell’insegnamento della matematica è importante quindi una riflessione su alcune pratiche didattiche diffuse e sulle loro conseguenze, ma anche su alcune convinzioni che stanno alla base di tali pratiche:
- l’idea di successo identificata con risposte corrette date in tempi veloci;
- l’idea che ‘aiutare’ gli studenti significhi rendere loro le cose più facili;
- una visione dell’apprendimento in cui c’è poco spazio per l’errore e il tempo, centrata più sull’acquisizione di conoscenze e abilità che sulla costruzione di competenze.
A partire da questa riflessione è possibile individuare alcune strategie didattiche che restituiscono senso all’insegnamento della matematica: problem solving, didattica laboratoriale, ma soprattutto una diversa gestione del tempo e degli errori.
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